Un’urgenza che cerca voce
Ogni progetto comincia da un’urgenza.
Farsi Madri nasce dal desiderio di raccontare la maternità come fatto culturale e sociale, e dalla necessità di farlo insieme — con lentezza, complessità e domande aperte.
La strada che ci porta a Farsi Madri
Farsi Madri nasce infatti da un’esigenza allo stesso tempo personale e collettiva: raccontare la maternità non come esperienza universale, neutra e sopratutto esclusivamente individuale, ma come processo culturale e sociale.
Sono diventata madre per la prima volta nel 2019.
Fin dall'inizio ho percepito quella trasformazione come qualcosa di profondo, disorientante, a tratti persino violento.
Nel mio villaggio — le conversazioni, le parole, i racconti e le riflessioni — con alcune amiche dei tempi dell’università, mi hanno fatto comprendere quanto l’antropologia potesse essere uno strumento potente per leggere ciò che stavamo vivendo.
È da lì che nasce Farsi Madri: dal bisogno di tenere insieme esperienza e sguardo, vissuto e distanza critica. Di raccontare la maternità non come una semplice esperienza individuale, ma come un fatto culturale e sociale, sempre in relazione. Di farlo con una lente che sa rallentare, osservare, ascoltare, e soprattutto non dare per scontato.
Dopo anni vissuti tra linguaggi, paesi, ruoli e sguardi diversi — da antropologa, da madre, da lavoratrice nel mondo tech — ho voluto trovare uno spazio per pensare e riflettere su ciò che significa “diventare madre” oggi.
I social parlano molto di maternità, ma spesso in modo polarizzato, semplificato, performativo.
Farsi Madri è un tentativo artigianale e ostinato di non cedere a queste tendenze, e di proporre invece una narrazione più complessa, lenta e condivisa.
Una stanza tutta per pensare
Non pretendo di spiegare a te che leggi la maternità, il mio scopo è interrogare. Non stupirti allora se alla fine della lettura avrai più domande che risposte. Anzi: se arrivati in fondo avrai almeno una domanda in più, sentirò di aver raggiunto il mio obiettivo.
Sono alla ricerca di persone curiose, attente, stanche delle dicotomie, delle risposte facili, delle frasi fatte, delle scorciatoie della semplificazione.
Questa stanza è per chi sente che la maternità tocca corde profonde — sociali, culturali, politiche — che meritano di essere dipanate con la giusta attenzione.
Non solo per madri, ma per chiunque desidera esplorare come si diventa madre (o si sceglie di non esserlo), come la società ci guarda e ci plasma, e come possiamo costruire nuovi modi per raccontarci.
Una lente d’ingrandimento particolare
L’antropologia culturale mi ha insegnato molto e nel mio farmi madre ho capito quanto utile sia stata per affrontare le sfide materne che ho incontrato sul mio percorso. L’antropologia insegna ad osservare con occhi nuovi la diversità lonatana, ma anche la realtà di tutti i giorni; invita a sospendere il giudizio e a restare con la complessità, resistendo alla naturale inclinazione umana alla semplificazione.
È una disciplina che non ama le risposte granitiche, ma offre sguardi: cerca di capire come vivono le persone, come pensano, cosa danno per scontato.
L’antropologia serve per smontare certezze, per riconoscere che la maternità cambia da contesto a contesto, da corpo a corpo. Serve per vedere dove sono le norme, e dove possiamo — forse — immaginare qualcosa di diverso.
Un appuntamento lento
Questa newsletter sarà mensile: un appuntamento lento, non invadente, perché quale pubblico è più impegnato e bombardato delle madri? Queste righe vogliono essere una pausa sorseggiando un tè, una piccola fuga mentre raggiungi l’ufficio, un respiro profondo prima di ripartire.
Nei prossimi numeri troverete:
Riflessioni culturali e antropologiche sulla maternità
Letture commentate di testi significativi sul tema della genitorialità
Racconti tratti da esperienze di vita vissuta per approfondire insieme piccoli temi quotidiani che ci condurranno a riflessioni inaspettate
Tante domande aperte per stimolare il confronto
Una stanza che è un laboratorio
Ma questa newsletter non è solo uno spazio di lettura: vorrei che fosse un laboratorio, nel senso più antropologico del termine.
Un luogo in cui il sapere si costruisce con, non su, le esperienze.
Dove il pensiero nasce dal confronto, dall’ascolto, dalla possibilità di restare in dialogo.
L’antropologia riconosce il valore delle voci incontrate sul campo: la ricerca infatti non si chiude con la raccolta delle informazioni, ma con la restituzione, cioè il momento in cui l’antropologo torna sul campo per condividere con le persone coinvolte i risultati della proprio lavoro.
Non è solo una forma di condivisione etica, ma è anche un atto politico e conoscitivo.
Questo atteggiamento, che implica una responsabilità verso le persone coinvolte e le conoscenze condivise, è parte del mio modo di abitare questo spazio: non per raccontare la maternità dall’alto, ma per pensarla insieme, a partire da chi la vive.